mercoledì 23 dicembre 2015

Un dono da aprire più volte

Amo leggere almeno quanto amo scrivere.
Non credo di ricordare un momento della mia vita in cui o l’altra attività non mi abbiano accompagnata.
Amo regalare libri, soprattutto a Natale perché non è mai un regalo banale, è facile azzeccare i gusti di una persona ed è sempre un bel regalo da ricevere.
Almeno per me.
Visto che, come ho già detto, i post natalizi non sono capace a scriverli, ho voglia invece oggi di consigliarvi 6 libri, 4 per adulti e 2 per bambini, da mettere domani sera sotto l’albero dei vostri cari.
Sono consigli di cuore, perché non sono capace nemmeno di scrivere una recensione.
Buon Natale!

Enrica Tesio – La verità, vi spiego, sull’amore.

Enrica è l’autrice geniale del blog “Ti asmo: l’amore prima o poi arriva, e t’incula”. Già da questo titolo potete intuire qualcosa.
E se il blog mi ha entusiasmata, il libro mi ha definitivamente conquistata.
Enrica ha una scrittura scorrevole, divertente e profonda insieme,possiede innata una capacità favolosa di gestire la parola, ed è ironica; lo so che questa parole è stra-abusata, ma lei lo è davvero. Sa sempre come usare l’ironia al momento giusto e nella giusta misura, sintomo questo di un’intelligenza sopraffina.
Se pure l’argomento può sembrare trito e ritrito, vi assicuro che lei è in grado di affrontarlo in maniera magistrale, mescolando tenerezza, sentimento e risate da sganasciarsi in un equilibrio pressoché perfetto. Tenete i kleenex a portata di mano, serviranno tanto ad asciugare le lacrime di commozione che quelle di divertimento. E una matita, per sottolineare le perle di saggezza dispensate quando meno te l’aspetti.
Da regalare all’amica del cuore.


Concita De Gregorio – Mi sa che fuori è primavera


Ho letto questo libro d’un fiato, durante un viaggio di lavoro, il giorno degli attentati di Parigi, ed è come se mi fossi sentita tenuta per mano per tutto il tempo.
Non sono in grado di esprimere un giudizio equilibrato perché io amo la De Gregorio qualunque cosa faccia, e questo libro non fa eccezione.
Sempre così misurata, ma capace di entrarti nelle viscere; a tratti ho dovuto lasciarlo riposare e riprendere fiato, data l’intensità del racconto.
Questo libro tratta un tema delicatissimo, la perdita di un figlio in circostanze tragiche, e lei decide di farlo con un romanzo epistolare, in cui la protagonista scrive ad alcune persone, care o conosciute, lettere dal tenore drammatico e profondissimo.
La protagonista ci lascia il messaggio che anche dalla tragedia può nascere il conforto, se sappiamo accoglierlo.
Toccante e scritto divinamente. 
Da regalare alla mamma


Michela Murgia – Chirù
Ho scoperto Michela Murgia da pochissimo, e già ne sono innamorata persa, per la scrittura severa e densa, in cui niente è lasciato al caso.
Michela è una di quelle scrittrici capaci di gettarti nella storia con poche righe, ipnotizzandoti come un canto di sirena, trascinandoti in acque profonde e quiete, a cui è impossibile sfuggire.
Sembra di percepire la scorza dura della terra sarda nella sua scritturacapace di essere tagliente come il maestrale, bruciante come il sole d’agosto, e morbida come la sabbia di Tharros.
Chirù è una storia affascinante come i suoi personaggi, che riporta all’essenza di sé, regalando riflessioni profonde sulla vita e sulle relazioni umane.
Da tenere sul comodino e assaporare a poco a poco.



Hanning Mankell – Scarpe Italiane

Capostipite del “giallo svedese”, di Menkell ho letto quasi tutti i romanzi gialli.
Ho scelto però questo per l’originalità della storia. La vena investigativa permane, ma come una musica di sottofondo, per donare il ritmo all’intreccio di eventi che coinvolgeranno il solitario protagonista del romanzo.
L’intreccio, apparentemente semplicissimo, è in realtà strutturato e complesso, e la varietà dei personaggi descritti fanno di questo romanzo una piccola perla, da leggere assolutamente.
Menkell non delude mai: la sua morte quest’anno ci ha privato di uno dei più grandi scrittori del nostro secolo.
Da regalare a papà.



Oliver Jeffers - How to catch a star e Lost and found

Ho lasciato per ultimi due libri per bambini, che ho volutamente letto in inglese per non perdermi la poesia della lingua originale.
Se ancora non l’avete fatto, cercate questi due libri per i vostri bambini (sono disponibili anche in italiano, ovviamente) e non ve ne pentirete.
Oliver Jeffer è un poeta, un giocoliere che costruisce storie delicate e fantastiche, restando in bilico sul filo tra le iperboli, la logica e la fantasia dei bambini (non posso usare il mio razzo perché ho finito la benzina dopo che la settimana scorsa sono stato sulla luna). 
Divertente, toccante, educativo e con illustrazioni finissime che cattureranno l’attenzione dei vostri bambini.
Vi segnalo inoltre che di Lost and Found esiste un disegno animato; lo abbiamo visto per due volte su Rai Yoyo a casa dei nonni, ma non saprei dove procurarmelo; anzi, se qualcuno avesse una dritta da darmi gliene sarei grata.
Da regalare ai più piccoli, e agli adulti che hanno ancora voglia di sognare.

giovedì 17 dicembre 2015

La cacca

La cacca, si sa, è argomento delicato e ostico ai più.
Oggetto di diverse canzoni, dall’”Inno del corpo sciolto” di Benigni, a “Sogno” di Daniele Silvestri, e di uno dei migliori libri della letteratura d’infanzia, ovvero “L’incredibile storia di Lavinia” di Bianca Pitzorno (se non lo avete ancora letto, per l’amor del cielo FATELO), questo argomento così intimo e personale viene sdoganato da un solo grande evento della vita: la maternità.
A partire dalla gravidanza, in cui sperimentiamo sulla nostra pelle gli esiti di 3 chili che premono sull’intestino – intestino che a suo tempo si è già spostato e ri-assestato per fare spazio appunto ai 3 chili di cui sopra – per arrivare al parto, in cui l’incubo di ogni puerpera è fare la cacca davanti ad un team di ostetriche e dottori e, nel migliore dei casi, di qualche studente che assiste all’evento con l’entusiasmo dell’entomologo di fronte alla rarissima farfalla della Regina Alessandra. (e ogni doppio senso è puramente casuale).

sabato 12 dicembre 2015

Falene Nella Notte

Uscivamo nella notte, come falene impazzite, attirate dalle luci fluorescenti dei neon e dalleinsegne luminose dei locali sul lungo mare.
Indossavamo calze a rete e anfibi finto-nazi, e giacche di pelle consunte ai gomiti.
Scioglievamo sotto la lingua cartoncini dal gusto metallico, per esaltare i sensi e godere di una realtà nuova, fatta di contorni vividi, colori psichedelici e luci danzanti come fuochi fatui al cimitero.
Ridevamo smargiasse, creando scompiglio ovunque ci presentassimo, mano nella mano, anelli d’argento, bracciali di plastica e lunghi capelli a fare da cortina al viso, una maschera di trucco pesante, occhi neri, labbra vermiglie, in un perenne broncio di sfida al “fammi ridere se puoi”.
Calavamo drink fino alle luci dell’alba, offerti da sconosciuti in cambio di qualche servizietto nei cessi delle discoteche. Offrivamo i nostri corpi giovani con leggerezza, facendo a gara a chi la sparava più grossa. Alzavamo la posta sempre di più, a seconda dello stronzo che ci si parava davanti.
Stella una volta ha fatto credere a uno di essere vergine, l’ha guardato con occhioni spauriti da Bambi, con troppo mascara sulle ciglia, e quello come una bestia feroce che già se la mangiava con gli occhi, le pupille come capocchie di spillo.
Un’altra volta io e Giuditta abbiamo cominciato a baciarci, e Stella in un angolo che rideva sguaiata e riprendeva tutto col telefonino.
Intanto il pollo ci ha sganciato 300€ per godersi lo spettacolo, e per noi non c’era niente di strano o provocatorio nel fare quello che facevamo.
Un’anima sola in tre corpi distinti ma simili per fattezze.
Io, Stella e Giuditta.
Le falene della notte, creature che spiccavano il volo solo col favore del buio.
Di giorno fingevamo, ci trasformavamo in farfalle leggiadre, dai colori sgargianti, ma la nostra essenza si percepiva lontano un miglio.
Le anime come le nostre si riconoscono tra centomila, e quelli là fuori se ne tengono alla larga, come fossimo una malattia contagiosa.
A scuola i golfini color pastello e i cerchietti bombati non bastavano a mascherare la nostra natura; le gonne erano sempre troppo corte, i pantaloni troppo aderenti, le camicette troppo scollate.
Me lo ricordo ancora il prof. di italiano a sbirciare nella mia scollatura che lasciava intravedere un reggipetto virginale, di pizzo bianco, asciugarsi con gesto studiato il sudore che gli imperlava il labbro superiore.
E lasciarlo ansimarmi cose sconce nell’orecchio negli spogliatoi della palestra, e venirsi nelle mutande come un dodicenne infoiato, per ottenere in cambio un quadrimestre immacolato.
Stella, Giuditta e io, che poi sarei Soledad[1], per gli amici Sole.
La dicotomia di questo nome me la porto appresso da quando sono nata: le ombre delle anime solitarie, nascoste dalla luce del nome con cui tutti mi conoscono.
Io, Giuditta e Stella, il nostro mondo privato dove non era concesso di entrare a nessuno.
Passavamo i pomeriggi in casa di una o dell’altra, con la scusa dei compiti, ascoltando musica-rock-alternative a palla e studiando i nostri corpi diafani.
Facevamo a gara a chi resisteva più giorni senza mangiare, ci contavamo le costole, accarezzavamo le anche sporgenti, ed esploravamo le differenze e le somiglianze, senza malizia, come ninfe nel nostro personalissimo Eden.
I seni tondi e minuti di Stella, i capelli ricci e nerissimi di Giuditta, l’incavo dell’ombelico nella mia pancia piatta.
Mescolavamo il sudore e la saliva e il sangue, nel patto di amicizia che ci univa da quando eravamo bambine.
Incidevamo il nostro dolore sulla pelle con lamette sterili e osservavamo il sangue uscire copioso.
Ci medicavamo a vicenda, affinché le nostre ferite non si infettassero e le cicatrici rimanessero come un marchio a fuoco, solo nostro.
Eravamo una cosa sola, a sfidare il mondo là fuori.
Ci divertivamo a provocare i ragazzi più grandi con mosse studiate da donne vissute, quali in effetti eravamo senza nemmeno rendercene conto.
Passeggiavamo sul lungo mare in short minimal per esaltare le gambe lunghe e magrissime, leccavamo sfrontate gelati di forma fallica e ridevamo innocenti, come Lolite ignare di attirare su di noi sguardi curiosi e impudichi.
Nessuno nella cerchia dei nostri amici e parenti poteva immaginare cosa eravamo in realtà.
Le compagne di classe pettegole andavano in giro additandoci come puttane, ma per noi era un gioco tutto nostro. Aumentare la posta in gioco, alzare sempre di più la stanghetta del limite, vedere fino a dove riuscivamo a spingerci, provocare reazioni, vivere quella che credevamo la più figa delle vite possibili.
Chi poteva sospettare quello che si muoveva nel profondo dei nostri animi?
Mio padre era troppo impegnato a sbattersi la segretaria del suo rinomato studio medico, pensando di non farsi beccare da nessuno.
Mia madre, psicologa – che beffa del destino vero? - si trincerava in ospedale, con i suo matti, come amava dire lei, rifugiandosi nel loro mondo per non vedere, non soffrire, insensibile al mondo, dimentica anche di me.
Non si è mai chiesta dove scappassi la sera, non ha mai fatto scenate nel vedermi arrivare alle 6 del mattino, non mi chiedeva mai dove fossi stata o con chi. Ero con Stella e Giuditta, e tanto bastava.
Io cercavo di non darle preoccupazioni evidenti; studiavo il minimo indispensabile, mangiavo il minimo indispensabile, le raccontavo il minimo indispensabile che serviva a farle credere che la mia vita di adolescente scorresse tranquilla e libera dai pensieri; niente più di quelli che crucciavano le mie compagne.
Ogni tanto mi mostravo scontrosa, le raccontavo del ragazzo di turno che mi aveva mollata, e lei a consolarmi, che l’uomo giusto sarebbe arrivato presto, quando meno me lo sarei aspettata.
Mi sgridava quando mi vestivo troppo da maschiaccio secondo lei, che ero così bella… come una farfalla in attesa di uscire dal suo bozzolo.
Non poteva immaginare, non poteva nemmeno intuire.
Di giorno farfalle, studentesse modello, sportive, attaccate alla famiglia quanto basta.
Di notte falene impazzite, a respirare polvere bianca offerta da rampolli con istinti pedofili, e strusciarci negli angoli più reconditi della nostra coscienza lisergica, per dimostrare a noi stesse fin dove potevamo arrivare. 
***   ***
Eravamo nella sala d’aspetto del pronto soccorso e Giuditta mi stritolava la mano per la paura. Un’infermiera bastarda ci guardava da sottinsù, come fossimo schifosi scarafaggi da schiacciare con i suoi zoccoli lerci.
Stella non respirava più; gli occhi girati e la schiuma alla bocca.
Credevamo fosse un gioco.
Avevamo 18 anni da un giorno e quella vita non ci sarebbe appartenuta mai più.

***   *** 
Giuditta non mi guarda, lo sguardo vacuo della demenza, la mano storta in una posa innaturale, rigida come tutta la parte destra del corpo.
La prendo tra le mie e passo un dito sulla ragnatela di cicatrici intorno al polso, che mi sono così familiari; cerco un contatto, non so nemmeno se mi ascolta.
Dondola avanti e indietro, emettendo un suono gutturale.
Le asciugo una striscia di saliva, brillante come la scia di una lumaca, che le cola all’angolo della bocca.
Quella notte Stella è morta, e Giuditta ci è rimasta dentro.
Io, entrambe le cose.
Sono morta con loro, sono con loro in quel manicomio di urla stonate e psicofarmaci distribuiti in dosi generose.
Nel gioco delle tre carte che eravamo io, Stella e Giuditta, è toccato a me portarmi addosso la soledad dei sopravvissuti.
La combatto ogni giorno al lavoro, lo stesso di mia madre – che beffa del destino, vero? - accogliendo e ascoltando i ragazzi e le ragazze che sono passati attraverso il mio stesso dolore; loro si fidano di me.
Perché ci riconosciamo; anime gemelle tra centomila, che quelli là fuori tengono alla larga, come una malattia contagiosa.


Il racconto Falene nella notte ha vinto il premio della critica del 1° concorso letterario indetto dalla Proloco Giovani di Darfo Boario Terme, dal tema "Luci e Ombre", ed è arrivato tra i finalisti del Premio Letterario Italo Zucca






[1] Soledad in spagnolo significa “solitudine”

martedì 8 dicembre 2015

Fazioni di Natale

In questi giorni di fazioni “presepe a scuola sì o no”, l’italiano medio ha tirato fuori ancora una volta il meglio di sé.
Mancavano gli striscioni e i cori da stadio e il quadro sarebbe stato completo.
Gente che, per l’appunto, allo stadio tira giù moccoli da far tappare le orecchie a Gesù Bambino, è pronta a stracciarsi le vesti se a scuola non si fa il presepe.
Ma quando si tratta di portare la carta igienica non fa una piega. Vabbè che a stare nella merda siamo abituati però…
Io credo che dietro a questo trincerarsi in tradizioni e campanilismi, risieda in realtà un attaccamento alla nostra infanzia, ai ricordi che più o meno tutti abbiamo legati alle feste e alla preparazione del presepe.
Il profumo di mandarini e sugo che invade la casa, misto a quello della polvere e della carta di giornale che avvolge le statuine, nel rito sacro del “porto su gli scatoloni dalla cantina” e “scarta le statuine una per una, fai piano e stai attento a non farle cadere!”.

E voi? A che fazione appartenete?
Presepe o albero?
Panettone o Pandoro?
Per i genovesi: panettone alto o basso? Grondona o Panarello?
Per i milanesi: panettone con o senza canditi?
Torrone morbido o duro?
I regali si aprono il 24 sera o il 25 mattina?
Cena il 24 o pranzo il 25?
Per i bambini regali educativi vidimati dalla High Cchool of Montessori o plasticoni di marca di cui hanno intasati i neuroni a suon di pubblicità?
Doni portati dal papà vestito da Babbo Natale o trovati sotto l’albero insieme biscottini sgranocchiati e all’idea di Babbo Natale che si intrufola in casa più abile di un topo d’appartamento?
Per non parlare dei menù natalizi….